Settembre è il mese più crudele, mi sono detto molte volte a partire dai 20 anni, parafrasando T.S. Eliot.
Quello del 2001 lo fu in modo particolare: avevo ripreso il lavoro dopo le non-ferie (avevamo appena traslocato a Sant’Ilario, subito dopo i tremendi giorni del G8) e mi sentivo spossato. La salute zoppicava, come sempre all’inizio dell’autunno, e per di più avevo un’anemia strisciante da mesi; di lì a pochi mesi quel che era rimasto del mio stomaco avrebbe minacciato brutti scherzi…
Il lavoro in I.NET alternava alti e bassi: da un lato mi sentivo finalmente parte della “grande famiglia” che il patriarca Roberto Galimberti (“il Gal” per tutti) vantava, ma non potevo non riconoscere che il mio ruolo continuava a essere marginale, né carne, né pesce (tanto per cambiare): da un lato ero responsabile della direzione “Merge& Acquisition” in un’azienda dove il Presidente decideva le strategie e dove il socio di maggioranza (British Telecom) aveva comunque l’ultima parola (ma poi, come avrei scoperto di lì a poco, anche la prima, la seconda, etc. etc.); dall’altra c’era questa hidden agenda secondo cui la mia funzione avrebbe dovuto essere soprattuto quella di fare da cuscinetto tra Marco e Stefano, come dire tra l’incudine e il martello…
Mentre ero così confuso, ritornarono alla carica in azienda quelli della banca d’affari: avevamo avuto un incontro cordialissimo con un’azienda austriaca a Pasqua, dove il Gal si era perfino lanciato a trovare similitudini sia per età, sia perfino per somiglianza di rotondità da bevitori di birra. Al di là del folclore, questi austriaci sembravano oculati imprenditori, attenti a non fare il passo più lungo della gamba, anche a costo di non essere abbastanza attraenti (“sexy” si diceva) per il potenziale acquirente.
Nella banca d’affari c’era, a guardar le cose con il senno di poi, un po’ troppo fermento: Daniela che mi comunicava il passaggio del testimone per “riorganizzazione interna” (in realtà avrebbe lasciato la banca a fine anno), Alexander che voleva arrivare in Austria con il contratto già pronto per la firma, Zeph circospetto come sempre, ma desideroso di passare quanto prima alle successive – e auspicabilmente più interessanti – acquisizioni.
Partii per Vienna con il mandato di cambiare tutta la base di trattativa, giustificando la cosa con la difficile situazione del mercato globale. Avevamo appuntamento in un hotel del centro, dove ci avrebbe raggiunto Johann, responsabile locale della banca d’affari, per andare insieme all’incontro con l’azienda. C’era con noi Alberto, dal cognome sdrucciolo che non riuscivo mai a ricordare, e c’era soprattutto Silvio, il “senior” della banca d’affari, un robusto signore vestito, come credo tutti gli italiani che lavorino nella City a Londra, con il tipico gessato blu. Zeph, il piccolo anglo-indiano (dello Sri Lanka), l’analista della squadra, deve essere stato l’ultimo ad arrivare. Io ero rintronato come al solito dopo un’alzataccia e un volo internazionale.
L’incontro presso l’azienda iniziò con stile chiaramente dilatorio: ci fu mostrata tutta, ma proprio tutta, la nuova sede, appena allestita. Fu solo intorno alle 13 che riguadagnammo la stanza delle riunioni della vecchia sede, la dove ci eravamo incontrati la prima volta. Johann, rigido come una buona imitazione di bancario tedesco, cercava di rispettare i tempi che erano stati previsti in agenda, anche se eravamo abbondantemente in ritardo. Quando la tecnica dilatoria arrivò a proporre di posticipare la presentazione dei dati economici aggiornati a dopo il break, mi impuntai e ottenni che almeno la presentazione fosse fatta subito, lasciando lo spazio per domande e chiarimenti durante il break.
Il giovane direttore finanziario ci mise un bel po’ per passare attraverso le prime diapositive e arrivare infine a quelle più significative. E tutto divenne chiaro: in ogni caso, da qualunque parte la si guardasse, quella era una barca che faceva acqua. Altro che contratto già pronto da firmare! Non c’era nessuna speranza che gli inglesi (ma probabilmente Gal per primo si sarebbe opposto) avrebbero dato il via a una acquisizione dopo aver visto quei conti economici, passati nell’arco di pochi mesi – 5, da Pasqua a settembre – da un profitto limitato, ma realistico, al rosso profondo.
Nel primo pomeriggio la conversazione si avvitò ancora di più: rendendosi conto, da persone serie quali i nostri interlocutori erano comunque, che l’acquisizione dell’intero gruppo era ormai improponibile, si arrischiarono a proporre improbabili scorpori, dove a noi sarebbe toccata la parte profittevole e a loro tutto il resto, provocando così sensazioni altalenanti tra l’incredulità che la proposta fosse estemporanea e campata per aria al “questi stanno così male che vogliono vendersi i gioielli di famiglia”. Con un esercizio di diplomazia riuscimmo a lasciare formalmente aperta la porta per un riesame della proposta indecente, da far gestire al mediatore Johann, ma di fatto avendo chiaro tutti – proprio tutti – che era appunto solo un esercizio di diplomazia, e che nella sostanza non sarebbe successo più nulla.
Alle 16:30 eravamo in quattro su un capiente taxi viennese, in rotta per l’aeroporto.
Silvio sbrigava al cellulare le molteplici attività del manager internazionale: gestire l’agenda dei giorni successivi con la segretaria, gestire le paturnie della moglie annoiata nella casa svizzera, gestire i problemi dei figli, grandi e piccoli, sparsi tra casa e collegi, e così via.
Tra le sue varie telefonate che avvenivano in sottofondo in un collage di italiano, inglese, tedesco e francese, appena sopra il mio livello di attenzione (solo perché sono curioso e quasi goloso dei fatti della gente), ci fu ad un certo punto una telefonata in arrivo, breve scambio di frasi in italiano, e poi notizia rimbalzata, in inglese, agli altri passeggeri: “pare che un aereo da turismo si sia schiantato contro il World Trade Center a New York”. Incredulità e primi commenti allarmati; no, non posso credere sia stata una fatalità, ci sono meccanismi di sicurezza, regole da rispettare…
Dopo poco una seconda telefonata, e poi una terza, questa in inglese dall’ufficio di Londra. “Pare che gli aerei sia due: uno da turismo contro una torre, e un Jumbo contro l’altra”. Sgomento nel microcosmo in movimento verso l’aeroporto, coinvolgimento dell’autista. Ma allora deve essere un attentato, è una cosa incredibile, come è potuto succedere, che ora è adesso a New York, gli uffici sono già aperti, ci sono decine di migliaia di persone che lavorano là, ci sono colleghi e amici in altre banche d’affari che hanno sede nel WTC…
Nel frattempo si era arrivati all’ aeroporto. Attraversammo la hall in mezzo alla gente ancora ignara di quello che sta succedendo, ma arrivati davanti al negozio di elettronica del duty free trovammo una piccola folla con il naso per aria che guardava attonita un televisore con le immagini delle torri, ancora due, in fiamme. La folla cresceva, anche perché il negozio era in uno dei punti di passaggio più stretti, finché il commesso – chissà se si rendeva conto di quello che stava succedendo – spense il televisore o cambiò canale e fece un gesto per disperdere gli spettatori come si fa con uno sciame di mosche che infastidiscono, rei di guardare la tv a sbafo e di non essere lì per comprare gadget.
Per fortuna, almeno per quelli che viaggiano in business class, poco più avanti si aprirono le porte automatiche della “Lounge”, affollata ben più del solito, ma con ben pochi a riempirsi bicchieri di alcolici e sgranocchiare patatine. Erano tutti lì, lo sguardo fisso sulla CNN che mostrava a più riprese l’impatto del secondo aereo contro la torre. E poco dopo si vedeva la torre afflosciarsi su se stessa, con colonna sonora di grida convulse in diretta, “live”, come ostentava la CNN da New York, e sommessi “My God!” nella lounge dell’aeroporto, facce attonite di manager abituati a trattare miliardi come noccioline e uomini come pedine. Nessuno riusciva a parlare, sembrava di essere dentro un film, un pessimo film di fantapolitica di serie B.
Mi sembrava di essere finito in un universo parallelo, di quelli che si inventano nei film o telefilm di S.F. dedicati ai paradossi temporali: che cosa sarebbe successo se Yasser Arafat non avesse firmato l’accordo con Ehud Barak, se Al Gore non avesse vinto le elezioni per un pugno di voti, e così via. E invece era tutto vero: questo è l’universo in cui mi era capitato di vivere, con decine di migliaia di morti americani, morti importanti, perché nei loro 20 o 50 anni di vita avevano provocato un aumento di entropia del mondo centinaia di volte di più di qualsiasi bambino africano. E questo era peggio di Pearl Harbour, era solo l’inizio, l’inizio della fine, perché dimostrava che non c’è limite al danno che può provocare chi è così disperato da non curarsi da quanti morti innocenti farsi accompagnare nel proprio suicidio.
Poi anche la seconda torre crollò in una nube di fumo, lasciando un nulla là dove tutti avevamo visto, sia di persona che nei film americani, il simbolo dell’ americanità moderna; dopo la Statua della Libertà, dopo l’Empire State Building, quello era il simbolo dell’opulenza del secondo dopoguerra. E pensavo a mio padre, perché gli ascensori, abbinati, in batteria, in cascata, “intelligenti”, che animavano le due torri erano certamenteprodotti da Otis. Mi ricordavo che 20 anni prima – era il 1980 – avevo girato Manhattan in bicicletta (c’è ancora una foto che mi ritraeva che è ricomparsa qualche tempo dopo) ed ero stato sotto alle torri, sotto quelle colonne così eleganti e apparentemente sottili. Ora tutto questo non c’era più. Nell’irrealtà che vedevo intorno, mi veniva in mente vecchie storie di fantascienza.
Per tornare con i piedi per terra telefonai a casa, pensando di dover rassicurare Graziella che non mi sta succedendo nulla, sebbene sia in giro per aeroporti e aerei (arriverà di lì a poco la notizia che gli americani, in piena paranoia da attentati, hanno chiuso completamente lo spazio aereo, voli nazionali e internazionali compresi). A casa il clima era inaspettatamente tranquillo, e anzi sono io a sollecitare di “guardate la tv, guardate la tv!”.
Altre notizie giungono in quella sala di attesa, dove i passeggeri si alternano: i partenti con lo sguardo serio e chiuso in se stesso o sgomento e in cerca di solidarietà, gli appena-giunti sorpresi e increduli. L’aereo caduto sul Pentagono accresce l’immagine di attacco proditorio all’America nel suo insieme; e poi c’è quell’ultimo aereo, quello di cui si sono perse le tracce; arrivano comunicazioni frammentarie, non attraverso la radio di bordo, ma attraverso cellulari tenuti accesi e nascosti dalla mano, come certi maleducati compagni di volo che nessuno vorrebbe avere vicino.
E quella frase, “Let’s roll“: sono queste le cose non mi fanno sentire estraneo a questa gente; saranno pure i nuovi Romani imperiali, l’ultima superpotenza egemone e quindi sopportata oppure odiata, ma pensare che ci siano americani, passeggeri qualsiasi di un aereo qualsiasi in volo sopra la Pennsylvania che, avendo sentito dalle comunicazioni clandestine via cellulare che quelli che sono in cabina di pilotaggio non sono dirottatori qualsiasi, ma fratelli degli altri che sono stati poco prima bombe umane sul WTC e sul Pentagono si dicono “rimbocchiamoci le maniche e facciamo qualcosa”, mi fa sentire vicino a loro, ai valori positivi in cui credono con fede quasi adolescenziale.
E che dire dei nostri quasi-adolescenti? Due giovani, un ragazzo e una ragazza italiani, turisti, sono in coda a fianco a me per salire sul “aeromobile con destinazione Milano Malpensa” (come recita il gergo standard aeroportuale) e non sanno nulla della tragedia che si sta compiendo.
Sono io che li informo: “Ma non lo sapete?!? C’è stato un attentato terroristico al WTC; due Jumbo si sono schiantati contro le due torri, e poco dopo le torri sono collassate al suolo”.
“Ben gli sta agli americani, imperialisti che vogliono comandare su tutto il mondo” dice il ragazzo.
“Ma qui parliamo di decine di migliaia di morti, di gente che era appena arrivata al lavoro, di pompieri che correvano contro corrente per cercare di spegnere gli incendi provocati dal tanto carburante imbarcato, non si può non essere solidali.”
E intanto eravamo sulla porta di entrata di un altro aereo, non un 747, magari un Super80, ma comunque bello pieno di carburante, e non sapevamo chi stava seduto nelle prime file, chissà, magari qualcuno con la pelle olivastra, come la mia, con la barba, come la mia, con i lineamenti semitici, come i miei.
Di lì a pochi giorni mi avrebbero preso in giro in I.NET come quasi-sosia di Osama Bin Laden, ma quella sera la faccenda era ancora maledettamente seria e triste; che i morti non fossero 20’000 ma solo 3 o 4 mila non attenuava lo sgomento, mentre intanto cominciavano a venir fuori le mille storie con nome e cognome, quelle che aumentano la partecipazione al dolore e alla rabbia. Su un aereo c’era quel VP di una start-up che aveva appena chiuso il “deal più importante della sua vita”, al WTC c’erano gli uffici della Merrill Lynch, manager e analisti, nonché terminali, armadi, scrivanie, erano tutti scomparsi nel crollo. E via così…
Di colpo, della possibile/improbabile acquisizione non me ne importava più nulla; il mondo era cambiato, non sarebbe mai più stato lo stesso di prima.