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Palermo, 9 luglio 1994

  • ITnet

Sto sfrecciando a tutta velocità attraverso una Palermo deserta, guidando la Opel Kadett rossa con tanto di roulotte al traino; a bordo: moglie, figli e suocera. Sembra incredibile che non ci sia praticamente nessuno nelle strade, sotto il sole a picco, ed è una fortuna inaspettata: riusciremo ad arrivare al Terminal Traghetti per tempo per imbarcarci per Genova. Non occorre nemmeno accendere la radio, basta ascoltare tutte le radioline e i televisori che rimbombano per le vie, trasmettendo la telecronaca del quarto di finale della Coppa del Mondo in corso negli Stati Uniti. Stanno giocando Italia e Spagna. Ogni tanto urla e applausi sottolineano le azioni della combattutissima partita.

Arriveremo al porto giusto in tempo per sentire le grida di gioia al goal di Roberto Baggio del 2-1 e poi, pochi minuti dopo, quelle per il fischio finale della partita. Per me e per Daniele (13 anni) e Nico (5 anni) ci sarà la consolazione del replay della partita durante la navigazione per Genova.

Mentre sto guidando, però, il mio pensiero non va al calcio. Mi rendo conto che sto letteralmente correndo verso una nuova stagione della mia vita, piena di incognite e di cambiamenti. Quella breve vacanza in Sicilia, poco più di una settimana, era stata un disastro, la peggiore di sempre. Intanto avevamo deciso di anticipare rispetto al consueto periodo agostano, non tanto per sfuggire il caldo siciliano, ma perché sapevo che questo sarebbe stato l’unico momento di quiete da dedicare alla famiglia per un bel po’ di tempo di lì in poi.

Quanto fosse poi davvero dedicato alla famiglia, beh, meglio lasciar perdere… 

La mia testa era rimasta a Genova, per quanto cercassi di non pensarci. E poi c’era quella faccenda con il telefono cellulare. Avevamo affittato per l’occasione uno dei primi, costosissimi, Motorola a “saponetta”, robustissimo e rigidissimo, con un accordo a due con mia moglie: lei voleva essere sicura che sua zia, malata da tempo e abituata a vivere in simbiosi con la sorella (mia suocera), fosse sempre raggiungibile in caso di difficoltà o temuti problemi di salute; io, dall’altro canto, avevo bisogno di rimanere in contatto con i miei soci attuali e futuri, nonché di essere disponibile per interviste estemporanee da parte di qualche giornalista, perché ormai il dado era tratto e, sebbene ancora non esistesse formalmente, di ITnet si parlava già in giro.  I due usi del telefono erano purtroppo assolutamente agli estremi opposti: mia moglie sperava che non suonasse mai, e ad ogni trillo sobbalzava temendo cattive notizie, io  anelavo avere aggiornamenti quotidiani ed ero lusingato dall’attenzione della stampa.

Mentre percorrevo la litoranea da Isola delle Femmine al porto di Palermo, pensavo a come sarebbe stata la mia vita dal lunedì successivo. Avevamo appuntamento dal notaio per costituire ufficialmente ITnet S.p.A., con un capitale nominale di 300 milioni di lire e tre soci; avevamo pronto uno spazio uffici all’interno dell’incubatore di imprese che era nato da poco nell’area dismessa di Genova Cornigliano, denominato “Business Innovation Center” (BIC da allora in poi). Il sogno che avevo immaginato da almeno un anno si stava finalmente realizzando, ma nulla in realtà sarebbe stato proprio come l’avevo immaginato. Quelle che erano state certezze incrollabili sull’ineluttabilità del successo del primo vero Internet Service Provider commerciale italiano erano venute a mancare strada facendo e i dubbi e le paure sul futuro mi attanagliavano.